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L'INFERNO
(L'ENFER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 28 marzo 1994
 
di Claude Chabrol, con Emmanuelle Béart, François Cluzet (Francia, 1994)
 
"L'ENFER non è una storia, è un itinerario: quello di un giovane e fortunato proprietario di un alberghetto in riva ad un lago del Languedoc. Di lui - come capita sempre nei film di Chabrol - non ne sapremo più di tanto. Solo che, oltre all'alberghetto, conquista la bella della villaggio: l'esuberante, procace, incoscientemente disinvolta o perfidamente "drageuse", Emmanuelle Béart.

Chabrol (per eccesso d'ambiziosa fiducia in sé stesso? perché la faccenda gli scappa tra le mani?) spacca a questo punto il suo film in due parti. Nella prima, com'egli gradisce, si limita ad osservare quanto succede. Senza spiegare, senza giudicare: come l'entomologo - sempre tirato in ballo in questi casi - osserva ciò che nasce fra i due che si auto distruggono. Ciò che nasce in Paul (François Cluzet) è la gelosia. Con tutto ciò che di irrazionale questa comporta: sentimento incontrollato, che lo spettatore considera (per ciò che gli è dato di vedere...) ingiustificato, quindi assurdo, dapprima idiota poi, progressivamente, perverso fino alla demenza (probabile: poiché anche questo rimane nel dubbio) omicida.

Ed è qui che L'ENFER divarica: non contento di osservare dal difuori, Chabrol intende scavare all'interno. E la seconda parte del film diviene allora quella del titolo, una discesa all'inferno: con la cinepresa che sposa lo sguardo, vuoi la mente del protagonista. Immagini allucinatorie di un film "noir" che si vota al fantastico, che da sadomasochista (come sarebbe stato nel progetto originale di Clouzot) si fa delirante, e la povera Emmanuelle che viene ormai filmata con il bocchino da fatalona dell'espressionismo, i corridoi dell'albergo come le prospettive contorte dei primi Lang. E, soprattutto, le allucinazioni di chi racconta che non sappiamo più se corrispondere allo sguardo oggettivo della camera.

Sappiamo come vanno queste cose: se possedute da mano ferma possono esaltare la duplicità dell'immagine cinematografica. Se pasticciate, sfociano nell'arbitrio: perché - essendo l'immagine di per sé stessa fonte di "verità" - lo spettatore è portato a darle fiducia. Ora Chabrol, reduce da un quasi perfetto BETTY, sembra confermarsi vieppiù' come un cineasta perlomeno incostante. Che registri la cronaca, o si abbandoni al delirio, l'approssimazione sembra essere la costante di L'ENFER: i personaggi, le situazioni, persino l'ambiente sono schematici, sottolineati. Se i due protagonisti sono volutamente non-spiegati, la loro direzione non è sempre perfetta (la più convincente è ancora la Béart: ma pure lei è abbandonata ai gridolini civettuoli, agli ancheggiamenti sottolineati). Altrettanto manicheista è l'ambiente, con i suoi personaggi di contorno che una volta significavano il cinema di Chabrol, quello che dietro la sue storie di polizieschi o commedie prese a pretesto, dipingeva una Francia dalla perversione borghese e dal calcolo meschino. Qui tutto è caricaturale, privo d'interesse. I corteggiatori di Nelly sono dei bellocci eccessivamente tipati, i frequentatori della pensione (che dovrebbero pur sempre significare la noia, il male di vivere) macchiette prive di significato critico: come un assurdo J.P. Cassel che ridacchia scioccamente, o un cineasta dilettante che inciampa in continuazione.

Exit la satira - per non dire l'angoscia - rimane la convenzione. Ed una grandiloquenza che impedisce ogni sorta d'adesione."


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